C'è stato un tempo in cui volevo inventare app. Poi ho capito che il progetto più importante della mia vita era mio figlio.
Quando i miei genitori mi hanno comprato il mio primo computer avevo 13 anni. Era un catorcio della Mediaworld che impiegava 15 minuti ad accendersi, ma è stato l'inizio di tutto. Se il computer è stata una svolta, collegare il modem alla presa del telefono è stata una rivoluzione. Quella curiosità mi ha portato a passare anni a creare siti pieni di gif e piccoli software, alimentando un unico, grande sogno: inventare qualcosa di mio, qualcosa che tutti potessero usare.
Quel sogno sembrava essersi concretizzato qualche decennio più tardi quando, con alcuni amici, ho fondato una startup: un marketplace di esperienze outdoor. Eravamo carichi, avevamo visibilità, i primi clienti... sembrava la strada giusta. Contemporaneamente avevo altre mille idee e progetti, ma gestire iniziative del genere richiede un'energia totale, notti insonni e una dedizione assoluta. Un'energia che, semplicemente, non avevo più.
Perché nel frattempo, la vita mi aveva messo di fronte a un progetto infinitamente più complesso e importante, un progetto che non potevo programmare, né lanciare, né abbandonare: mio figlio Daniel.
Mentre cercavo di risolvere i bug dei miei side projects, la mia mente era da un'altra parte. Era alle prese con un 'sistema operativo' molto più indecifrabile, quello di un bambino a cui era stato appena diagnosticato l'autismo. Le notti insonni non erano più dedicate al codice, ma a cercare risposte su Google, a ripassare mentalmente ogni cosa che avrei potuto fare di 'sbagliato'. La mia energia non era più per fornire un servizio migliore agli utenti, ma per le terapie.
E' stato un inferno accettare questa diagnosi, non ero pronto. Non potevo credere alle parole dei dottori, sperando con tutto me stesso che fosse solo una cosa passeggera e che un giorno sarebbe diventato un bimbo come tutti gli altri.
Accettare questa situazione non è stato come premere un pulsante o eseguire una riga di codice, ma un percorso lento, faticoso e doloroso; reso possibile solo con il tempo e da un aiuto esterno. Lentamente ho smesso di vederla come una condanna e ho iniziato a considerarla la mia sfida più grande.
E lì, in mezzo alla paura e al disorientamento, ho capito una cosa. Il mio sogno non era fallito. Si era semplicemente trasformato. Avevo sempre voluto costruire qualcosa che avesse un impatto, che cambiasse le cose. E mi sono reso conto che il progetto più rivoluzionario su cui avessi mai potuto lavorare era già lì, davanti a me.
Ma per arrivare a questa conclusione mi ci è voluto molto tempo, molte delusioni e molto lavoro su me stesso perché queste cose quando accadono non arrivano con un foglietto d'istruzioni. La mente è una macchina contorta e quando si ritrova davanti qualcosa di grande e inspiegabile prendere risvolti inaspettati. La malattia di mio figlio aggiunta alla perdita di mio padre mi hanno portato ad una depressione senza scampo. Ho sempre pensato che la depressione fosse un qualcosa di tangibile, quando c'è la si cura. Mai avrei pensato di ritrovarmici e soprattutto di ritrovarmici senza rendermene conto. Arriva in modo inesorabile e te ne rendi conto solo una volta che nei sei uscito.
Quando sei ci sei in mezzo, quella sembra la tua nuova normalità e accetti le cose per quelle che sono, come se fosse naturale vivere in quel modo.
Ma quel modo non faceva male solo a me, ma faceva male soprattutto a mio figlio che aveva bisogno di avere accanto a lui una persona in grado di poterlo aiutare per davvero, non un fantasma.
Non ho scelto questo progetto. È lui che ha scelto me, costringendomi a smontare e ricostruire ogni pezzo di me stesso. Mi ha costretto a passare dal desiderio di controllare tutto, come si fa con un software, all'arte di accettare ciò che non si può controllare.
Quel ragazzino di 13 anni che sognava di diventare inventore non è scomparso. Ha solo cambiato mestiere. Oggi non scrivo più righe di codice per un startup nel tempo libero; invento nuovi modi per comunicare. Progetto abitudini che possano dare sicurezza dove regna il caos. Costruisco ponti per entrare nel suo mondo, invece di muri per proteggere il mio.
Il mio metro di successo non sono più gli iscritti, le visite o le recensioni a cinque stelle. È un progresso minuscolo che per noi è un salto da gigante. È una crisi evitata. È uno sguardo che incrocia il mio e ci resta per un secondo in più del solito.
Ho smesso di cercare di costruire il 'prossimo unicorn'. Sto costruendo, giorno per giorno, il futuro di un bambino straordinario. E ho scoperto che questo è, senza alcun dubbio, il lavoro più innovativo, complesso e rivoluzionario che potessi mai sperare di fare.